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Perché partecipare alle IPO non è quasi mai una scelta vincente per gli investitori retail

Paolo Bascelli, Milano, 13/11/2019

Lo sviluppo continuo dei mercati finanziari ha agevolato notevolmente il reperimento di capitali da parte dei manager delle aziende. Se fino a 20-30 anni fa, si reperivano risorse economiche esclusivamente all’interno del proprio Paese, al giorno d’oggi un’impresa può decidere di raccogliere fondi su scala internazionale, grazie anche al notevole abbassamento del costo del capitale. Ad essere cambiata è anche la trasparenza del processo di quotazione in borsa, chiamata anche “offerta pubblica iniziale” (in anglosassone IPO, Initial Public Offer). Nella fig.1 è rappresentato il cambiamento delle aspettative dei manager riguardo i costi connessi sia al processo di quotazione sia al mantenimento della posizione di azienda quotata sui mercati finanziari.

Figura 1. Le aspettative dei manager riguardo i costi della quotazione (riquadro superiore) e riguardo i costi del mantenimento della quotazione sui mercati finanziari (riquadro inferiore). Fonte: PwC Deals

Dal grafico si nota chiaramente, sia per i costi della quotazione, sia per i costi del mantenimento dello stato di azienda quotata sui mercati finanziari, che più del 90% dei CFO (sigla che sta per Chief Financial Officer, equivalente al nostro direttore delle operazioni finanziarie) oggi si aspetta costi perfettamente in linea o tutt’al più leggermente superiori. Il cambiamento delle aspettative dei manager rispetto al 2012 è più evidente per quanto concerne i costi legati al processo di quotazione.

Tuttavia, avere maggior consapevolezza e trasparenza dei costi, elimina solo una delle difficoltà, cui i manager devono far fronte, nello stabilire il prezzo di offerta al pubblico iniziale delle azioni di una società che intenda quotarsi. Particolarmente arduo, per gli investitori retail, è la valutazione dei parametri e della profittabilità dell’azienda oggetto di IPO: gli investitori, infatti, possono fare affidamento solo sui prospetti informativi per decidere se partecipare ad una IPO oppure no. Si invita pertanto, caldamente, ad adottare un approccio il più possibile prudenziale riguardo le stime sulla redditività futura della società neo quotata e si consiglia di non partecipare alle IPO. Le motivazioni riguardo questo consiglio di approccio sono svariate, ma ne delineeremo alcune che spiccano per importanza rispetto alle altre.

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Costi della quotazione iniziale e del mantenimento del profilo di azienda quotata

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Nel momento in cui una società decida di quotarsi in borsa deve sostenere due categorie di costi: quelli legati al processo di offerta al pubblico e quelli legati alle modifiche dell’assetto organizzativo interno dell’azienda al fine di soddisfare gli obblighi di legge. Nella prima categoria rientrano le commissioni a favore dei soggetti che si impegnano a sottoscrivere l’IPO, i costi legati alla stampa e distribuzione dei prospetti informativi, le spese legate agli eventi pubblici per far conoscere l’azienda ad un pubblico di investitori il più ampio possibile, le spese legate agli adempimenti delle formalità di registrazione presso l’autorità di vigilanza del mercato finanziario su cui verrà quotata l’azienda. Questi costi, in media, sono quantificabili in 4,2 milioni di dollari circa (stima fornita da PwC). Nella seconda categoria invece rientrano tutte quelle spese legate alle operazioni interne di audit, alla modifica della denominazione sociale (qualora necessaria), all’adempimento di altre formalità fiscali e legali ed altre spese assimilabili. Questi costi, in media sono quantificabili in 1 milione di dollari circa (stima fornita da PwC).

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Per quanto riguarda i costi legati al mantenimento del profilo di azienda quotata vi sono due categorie di costi: le spese organizzative una tantum e i costi aggiuntivi ricorrenti. Nella prima categoria rientrano i costi di implementazione di nuovi modelli e processi di reportistica finanziaria, i costi di identificazione e arruolamento di un nuovo consiglio di amministrazione, le spese legate all’elaborazione di un nuovo piano di remunerazione del management, solo per citarne alcune. Questi costi, in media, sono quantificabili in 1 milione di dollari circa (stima fornita da PwC). Nella seconda categoria rientrano le spese ricorrenti derivanti dall’ampliamento dell’organico societario, l’aumento delle spese legate all’audit, l’aumento dei costi per l’assistenza legale e fiscale da parte di soggetti terzi, esterni alla società. Questi costi, in media, sono quantificabili anch’essi in un 1 milione di dollari circa (stima fornita da PwC). Lo schema riassuntivo è quello riportato in fig.2.

Figura 2. Costi legati alla quotazione iniziale (prima e seconda colonna da sinistra) e costi legati al mantenimento del profilo di azienda quotata (terza e quarta colonna da sinistra). Fonte: PwC Deals

Risulta evidente come i costi appena riportati possano incidere notevolmente sulla redditività aziendale sia nell’anno della quotazione, sia nell’anno successivo alla quotazione: la società neo quotata, ha necessariamente bisogno di un lasso temporale ragionevole per ristabilizzarsi e riconsolidarsi.

 

Conflitto di interessi e pratiche di earnings management

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L’anno in cui avviene la quotazione sui mercati regolamentati di una società è un periodo molto delicato, specialmente dal punto di vista contabile. È stato dimostrato da diversi studiosi che i manager dell’azienda che si vuole quotare, a causa di un evidente problema di conflitto di interessi (la quotazione è una forma di remunerazione dell’attività di impresa nel lungo periodo), mettono in atto pratiche ai limiti della legalità contabile nell’anno dell’IPO, posticipando la rilevazione di alcuni costi ed anticipando alcuni ricavi al fine di evidenziare in bilancio dei ricavi più alti. Questa pratica di earnings management si rivela dannosa per l’investitore retail, che dovendo basarsi esclusivamente sui pitch di presentazione e sui prospetti informativi, non riesce a valutare correttamente l’investimento nell’azienda neo quotata e rischia di pagare un sovrapprezzo per il mancato rispetto del principio di competenza delle poste di bilancio. L’investitore inoltre non riesce ad avere contezza del comportamento scorretto del management dell’azienda: una delle peggiori premesse possibili, investire in una società in cui il management è di dubbia affidabilità.

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Mancanza di serie storica di dati

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La società che prende parte al processo di IPO, non ha una storia di pubblico dominio. Ciò significa che non si hanno dati sulla qualità del management, sull’andamento dei ricavi e dei costi, sull’andamento delle spese per ricerca e sviluppo, sulle immobilizzazioni materiali ed immateriali della società, sul trend delle fonti di approvvigionamento (ricorso al debito, in che forma e su quali scadenze), sui piani industriali precedenti, sulla resilienza della società nel suo complesso, su come vengono gestite le dinamiche aziendali interne ed esterne per citarne solo una piccolissima parte. Non avendo elementi a sufficienza per prendere una decisione ben ponderata, l’investitore retail rischia di lasciarsi convincere da fattori quali campagne pubblicitarie particolarmente aggressive o ancor peggio da mode ingiustificate (si pensi alla bolla dei primi anni 2000 legata alle ormai tristemente famose società dot-com). Come consiglia sempre l’oracolo di Omaha, Warren Buffett, se non si conosce cosa fa una società o la sua storia, meglio dirigere il proprio sguardo di investitore da un’altra parte. Inoltre bisogna convincersi che investire nei mercati finanziari va vissuto come una maratona, piuttosto che come una corsa sui 100m: bisogna prendersi del tempo per raccogliere ed analizzare i dati e bisogna pensare sempre in un’ottica di lungo periodo, perseguendo obiettivi ragionevolmente realizzabili.

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Disclaimer: Questo articolo è frutto delle opinioni di chi lo ha redatto e supervisionato. Nessun compenso viene ricevuto per l’espressione di queste opinioni. Si dichiara inoltre di non avere alcun rapporto commerciale con le società e gli enti di ricerca menzionati in questo articolo.

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